Ispirato al libro di Yasmina Reza, l´ultimo film del regista rispetta la sua passione per l’aspetto macabro dell’umanità. Straordinarie interpreti Jodie Foster e Kate Winslet
ALGHERO - Nel libro di Yasmina Reza "God of Carnage" Roman Polanski trova l’ispirazione per realizzare un'altra pellicola, capace di portare avanti il filone tematico al quale è rimasto fedele durante la sua intera carriera. Il titolo del film, Carnage (Carneficina), conferma infatti, la passione del regista per l’aspetto macabro dell’umanità la quale pare provi una sorta di gusto-disgusto per la crudeltà.
Ma la tematica non è l’unica a mostrare l’impronta polanskiana, anche l’unità di luogo è un chiaro segnale della sua poetica capace di avvicinare incredibilmente la realtà teatrale a quella cinematografica. Infatti, esattamente come in Rosmary’s baby, Repulsion e L’inquilino del terzo piano, anche in Carnage, dopo un campo lungo iniziale e finale su di un parco, tutta la vicenda si svolge all’interno di un appartamento.
I protagonisti sembrano essere inizialmente proprio i bambini inquadrati all’apertura da lontano, mentre danno vita a forme di bullismo reciproco, ma successivamente la loro presenza e il pestaggio passano in
secondo piano, offrendo ai genitori il pretesto per diventare essi stessi presenza costante ed invadente del film. Ecco dunque che, quello che doveva essere un incontro civile tra adulti per discutere del gesto
violento di un bambino “pazzoide”, si trasforma in una lotta contro se stessi e contro tutti, dove a dominare non è l’interesse verso i propri figli ma l’egoismo. Ognuno pian piano abbandona la propria maschera
buonista per far emergere la propria individualità, ma soprattutto il personale gusto al massacro.
I quattro, infatti si attaccano, inizialmente per difendersi, ma poi per il semplice gusto di pugnalare la moglie o il marito, l’amico o l’amica. Improvvisamente, tutti nel film, diventano allo stesso tempo vittime e carnefici. L’appartamento stesso si trasforma in una carneficina, in un luogo non più fatto di mattoni, ma di parole pungenti, di ipocrisia, di gesti assurdi che suscitano al contempo riso e disgusto.
Quello che si avverte è un profondo senso di claustrofobia ed impazienza dettato probabilmente dall’assenza di alternanza di personaggi, di ambienti e situazioni. Tutto ciò però, ha qualcosa di profondamente familiare. L’appartamento descritto da Polanski come una gabbia dalla profonda capacità attrattiva sui personaggi, i quali cercano ma non riescono ad andare via, non è altro che lo specchio della nostra esistenza, fatta di una voglia incredibile di elevarci, ma intrappolata all’interno di una gabbia di egoismo che al contempo amiamo ed odiamo.
Nella foto: Roman Polansky
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